Grazie alle fonti letterarie e alle scoperte fatte nei siti archeologici di Pompei è stato possibile ricostruire la cucina dell’antica Roma e, addirittura, ricrearne numerose ricette, facendoci scoprire i sapori e i gusti di duemila anni fa.
“La cucina romana era fortemente condizionata dalla stagionalità delle produzioni agricole. Ciò comportava il grosso problema della conservazione degli alimenti”, spiega Annamaria Ciarallo, direttrice del Laboratorio di Ricerche applicate della Soprintendenza di Pompei.
“Le soluzioni più impiegate – continua la Ciarallo - erano l’essiccazione, l’affumicamento, la conservazione sotto miele, nel sale e in aceto. Altro problema cruciale era la cottura con il minor impiego di legna, che era una vera e propria ricchezza da conservare tutto l’anno. Nelle case di Pompei il forno era una risorsa solo per poche famiglie ricchissime; i forni erano tutti pubblici e probabilmente oltre a vendere i propri prodotti cuocevano anche le pietanze di privati. Il metodo di cottura più impiegato nelle case era la brace, sulla quale venivano riscaldati coppi o tegami di coccio”.
Delle tecniche di conservazione e di cucina si sono interessati numerosi autori romani, tra cui Catone e Varrone, che hanno scritto trattati di agronomia. Lo stesso Cicerone dedicò scritti a questi argomenti. Altre fonti interessanti per conoscere le ricette romane sono il De re coquinaria, attribuito a Marco Gavio Apicio, nato nel 25 a.C., la cui opera è una raccolta di ricette di salse e di piatti probabilmente provenienti da vari autori, e il De re rustica di Columella, autore vissuto nel I secolo.
Come riferisce Annamaria Ciarallo fu proprio Columella a parlare per la prima volta di recipienti di vetro per contenere le conserve, migliori di quelli di coccio che dovevano essere poi ricoperti di pece per renderli impermeabili all’aria, cosa che modificava anche i sapori. Proprio negli scavi vesuviani sono stati trovati numerosi barattoli, molto simili a quelli moderni, con una filettatura sull’imboccatura che consentiva di chiuderli con un pezzo di pelle stretta con un legaccio. Nel laboratorio da lei diretto sono state riprodotte conserve di cipolle pompeiane seguendo la ricetta di Columella che imponeva due parti di aceto e una di sale. Il risultato è stato strabiliante. Alle analisi microbiologiche il prodotto risultava assolutamente sterile. L’ambiente acido e salato garantiva perfettamente la conservazione. “Certo – commenta la Ciarallo - il sapore era molto forte, ma Plinio ci dice che il prodotto doveva essere risciacquato prima di mangiarlo. E, poi, la scienza ci offre un altro elemento. L’impiego di conservanti chimici e di antibiotici nell’alimentazione moderna ha modificato la nostra flora batterica, cosa che ci rende un po’ indigesto un piatto che nell’antichità poteva essere mangiato senza creare problemi”.
Cristina Moretti
(19-10-2009)
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