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La camicia dagli albori ad oggi, una storia lunga millenni

Indumento tra i più antichi al mondo, la camicia ha subito infinite variazioni nel corso dei secoli, assumendo di quando in quando “ruoli” sempre diversi


La bella stagione se ne sta andando e, immancabile, torna l’appuntamento con l’armadio e il cosiddetto cambio-stagione. Se finora protagonisti dell’abbigliamento estivo sono stati t-shirt e capi super comodi, da ora e per tutto l’inverno, regina del guardaroba sarà proprio lei, la camicia.
Capace di risolvere da sola giornate dal clima un po’ incerto si sposa alla perfezione con capi di lana nei mesi più freddi ed è perfetta per chi passa molte ore in ufficio.
Forse non tutti lo sanno, ma sono almeno dodici secoli che la camicia accompagna l’uomo nella sua giornata, assumendo nel tempo diversi ruoli e differenti significati: segno di eleganza, simbolo di nobiltà o appartenenza ad uno schieramento politico, dono galante o diplomatico. Insomma, l’uso quotidiano della camicia l’ha resa elemento indispensabile del “vestire civile”.

Sicuramente la sua antenata è la tunica romana (tunica interior) di lino, nel suo colore naturale, provvista di maniche, che appare in Roma nei primi anni del III secolo d.C. Si tratta di un indumento ampio, fermato da una cintura e che si indossa direttamente sulla pelle infilandolo dalla testa. Le lunghe migrazioni dal Nord al Sud che contraddistinguono l’Alto Medioevo, le guerre, le invasioni, determinarono sicuramente il successo della “interula” romana, la camicia. Sembra, infatti, che i barbari arrivati con le loro scorrerie nei territori romani, stanchi e sporchi, oltre al piacere delle terme apprezzassero quello di indossare la tunica interior.
A definire le sue caratteristiche stilistiche, poco ci aiutano le fonti iconografiche dell’epoca, perché scarsissime. Più esaurienti si presentano le fonti scritte. Dal Codice Barese, ad esempio, è possibile rilevare la presenza della camicia nella vita quotidiana delle diverse classi sociali. Essenzialmente l’interula maschile era un indumento lungo sino a metà coscia con maniche larghe, tagliate in un solo pezzo, che arrivavano sino ai polsi. Il tessuto usato è di solito una tela di lino, dal più pesante al glizzum sottilissimo fino alla trasparenza, da cui deriva il nome “glizzinae” che sta ad indicare, appunto, le camicie che furono indossate anche da Carlo Magno e dai cavalieri della sua corte.

L’importanza delle camicia si può desumere anche dai tanti modi di dire giunti a noi sin dal Duecento, di cui la camicia è protagonista. “Nato con la camicia” che sta ad indicare un uomo estremamente fortunato, oppure “rimasto in camicia” come ultimo bene del povero prima della rovina completa o, ancora, l’espressione del gergo popolare “sono culo e camicia” che sta a significare un’amicizia stretta ed intrigante fra due persone. Infine “sudare sette camicie” che esprime la fatica per ottenere un qualsivoglia risultato, è un’espressione che, già documentata nelle cronache del Trecento forse deriva dal conteggiare alla servitù, insieme al salario di pochi soldi, una o due camicie di tela grezza. E così, da antiche cronache, risulta essere la camicia “dono d’amore”; le fanciulle le ricamavano e poi le donavano allo sposo come dono di nozze.
Nel periodo rinascimentale invalse l’uso tra i cavalieri che partecipavano ai tornei di indossare sulla corazza una camicia donata dalla propria dama. Al termine veniva restituita quale messaggio d’amore se indossata dal vincitore, quale messaggio di morte, se macchiata del sangue dello sconfitto. Narrano ancora cronache medioevali che i genovesi donassero ai mercanti orientali, in visita alla Repubblica, camicie di lino finissimo ed altre in “tela d’Olanda” da portare al Khan di Tartaria. La camicia, così, diviene strumento diplomatico e nello stesso tempo oggetto di piacere.

E per rimarcare ancor di più la sua particolare importanza, la camicia è stata usata dagli uomini per sottolineare le differenze di classe. Tra il XVI ed il XVII secolo segni di questa distinzione sono il giustacuore senza bottoni, la veste slacciata, la scollatura a V ed ancora i candidi polsini che distinguevano il signore dal lavoratore in quanto chi li indossava non aveva certo modo di sporcarsi le mani.
La camicia, poi, negli ultimi centocinquanta anni ha assunto anche un significato politico a seconda del colore che più si allontanava dal bianco. Basta ricordare le gloriose “camicie rosse” dei garibaldini, quelle azzurre dei nazionalisti italiani e dei Franchisti spagnoli; quelle nere mussoliniane e quelle brune naziste, di cattiva memoria. Altresì non possiamo dimenticare il movimento dei “descamisados” sudamericani che si vollero chiamare così per sottolineare la loro disperata mancanza di tutto e la Guayabera di Cuba, divenuta un vessillo della nomenclatura politica.
E per finire, nemmeno la gastronomia ha potuto sottrarsi al fascino di questo indumento: nasce così l’“uovo in camicia”, un raffinato modo per cuocere le uova. Candido e lucente, l’albume avvolge il tuorlo come una camicia e, come sempre, il bello sta nell’aprire questo involucro.


Cristina Moretti

(03-11-2008)




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Pubblicato in S.Mariano - Perugia - Italia - Ultimo aggiornamento: 03-11-2008 alle :